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lunedì 28 settembre 2020

Margherita dolce vita?

Margherita è una mia ex alunna, una delle più brave della sua classe. Conservo un bel ricordo di lei: dei suoi occhi chiari e brillanti, che esprimono uno sguardo profondo e triste, del suo sorriso a metà, della sua dedizione per il lavoro e per lo studio. L’ho rincontrata di recente, mentre facevo la spesa, e ci siamo salutati con affetto. Ha avuto una vita difficile, Margherita, e solo da adulta ha potuto prendere la licenza di Scuola Secondaria di Primo Grado. Ero suo professore allora, ricordo la sua emozione e la gran quantità di lavoro che le ha permesso di prendere il voto più alto. Racconto spesso la sua storia. C’è da dire che Margherita non si chiama veramente così, ma il suo nome non posso dirlo, perché Margherita è detenuta e la attendono ancora molti anni da scontare.

 


Alcuni anni fa (vedi qui e qui) ho avuto il privilegio di insegnare alcuni mesi presso un carcere femminile: è stata un’esperienza che ha profondamente mutato il mio modo di lavorare ed il mio approccio alla scuola. Il quartiere dove sono nato e cresciuto si sviluppa intorno a quel carcere, perciò buona parte delle persone della zona hanno avuto modo di mettere piede lì dentro: che sia per lavoro, per volontariato o per scontare una pena, il carcere è inserito profondamente nel nostro tessuto sociale. Anch’io da ragazzo guardavo con curiosità e timore a quel lunghissimo muro grigio.

Se dovessi adesso descrivere con una sola parola quello che ho trovato lì dentro, userei “malizia”. Molti dei gesti che facevo o vedevo fare sembravano forzati, viziati da un pensiero o uno sguardo opportunista, che si attaccava persino alle intenzioni. Mi è capitato di dire parole gentili, parole ironiche, parole confidenti… alcune di esse mi si sono ritorte contro, altre hanno rischiato di ritorcersi contro le mie alunne. Tuttavia, a dispetto dell’etimologia che lega il termine “cattivi” ai prigionieri, la maggiore malizia l’ho incontrata negli altri lavoratori come me, talvolta invidiosi, talvolta interessati a qualche doppio fine. Da parte delle alunne ho ricevuto invece lo stesso rispetto che io davo a loro.

Uno dei ricordi più belli è il percorso scolastico di Margherita, che preparò per l’esame una tesina sui fiori, scritta a mano, con immagini fotocopiate ed incollate, i titoli scritti in penna rossa e i disegni eseguiti con pastelli colorati. Se penso a quanto sia difficile in carcere ottenere anche solo una penna nera, non riesco ad immaginare con quali difficoltà sia riuscita a procurarsi tutto l’occorrente!

La scuola per gli adulti solitamente è diversa rispetto a quella per i ragazzi: deve tenere conto della minore elasticità mentale, degli impegni di lavoro e di tanti altri fattori che rendono necessario valorizzare più l’impegno che i risultati. Lo stesso vale per gli adulti detenuti, che nella loro giornata oltre a studiare lavorano e devono rispettare numerosi obblighi con orari molto precisi. Eppure con quella piccola classe di donne siamo riusciti a costruire una normalità scolastica in un contesto assolutamente anormale; e Margherita è riuscita ad affrontare la scuola con tale dedizione da rendere i suoi risultati all’altezza del suo impegno.

Tutto normale, dunque? No, perché dopo l’esame salutai quella classe e per l’unica volta nella mia carriera fui io ad andarmene, lasciando lì le mie alunne; il contrario di quello che avviene normalmente ad un insegnante. Questo mi ha reso più di ogni altra cosa il polso della loro detenzione ed una certa malinconia mi accompagna ogni volta che ci ripenso.

Margherita si è sempre data da fare: prima nella lavanderia del carcere, poi nel bar, infine fuori, con una cooperativa sociale che si occupa del reinserimento di persone fragili nel mondo del lavoro. Ecco dunque come l’ho incontrata: ad un banco del mercato dove vende alimenti biologici prodotti nelle carceri. Sta bene e svolge il suo compito con il solito impegno. Quando le ho ricordato il suo esame mi ha sorriso a metà, commentando: «Una vita fa!». A noi prof fa sempre piacere rincontrare i vecchi alunni, ci domandiamo come siano diventati, come si siano trasformati e cosa è cambiato nelle loro vite. Rincontrare Margherita in quel contesto ha significato invece tutto l’opposto, ossia che il suo presente è lo stesso di tanti anni fa, quando la salutai dopo il suo esame brillante, lasciandola lì a scontare la sua pena.

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