Diamo voce ai nostri "pensieri rampanti", come fossero frutti acerbi ancora appesi all'albero, in attesa di cadere.

mercoledì 10 marzo 2021

Noi siamo diversi da loro

Tra il serio e il faceto lo dico sempre ai miei studenti: quando vincerete il Nobel (o la medaglia Fields o qualche altro prestigioso riconoscimento) ricordatevi di mandarmi i saluti! Non lo dico tanto per dire, ci credo davvero: vedo tra le mie alunne e i miei alunni troppe intelligenze brillanti per non pensare che tra di loro si nascondano scienziati, scrittori, artisti, politici, imprenditori… persone che faranno delle proprie capacità espressive, logiche, analitiche o sintetiche qualcosa di grande. È qualcosa di più di una speranza, è un investimento di cui attendo con ansia i frutti. Del resto, se fai con passione il mio mestiere, vivi questa attesa come grande motivazione, perché sai che in qualche modo nel successo futuro di un alunno c’è annidato il tuo lavoro nel presente.


È con questo spirito che Albert Camus, poco dopo aver vinto il premio Nobel per la letteratura nel 1957, ringrazia il suo maestro elementare:

«Caro signor Germain, […] quando mi è giunta la notizia [di aver vinto il premio], il mio primo pensiero, dopo che per mia madre, è stato per lei. Senza di lei, senza quella mano affettuosa che lei tese a quel bambino povero che io ero, senza il suo insegnamento e il suo esempio, non ci sarebbe stato nulla di tutto questo.»

È un po’ il sogno di tutti noi insegnanti, un ex alunno che al culmine del suo successo si ricorda di noi e del nostro lavoro. La vera sfida è che il nostro ricordo sia sprone, innesco per un percorso di vita in cui ciascuno possa esprimere al meglio le proprie capacità.

Ma la scuola non è solo entusiasmi, lo sappiamo bene, è anche fatica e frustrazione, che se non sono ben dosate diventano mortificazione del talento. Questo ci dice, ad esempio, il commento pubblicato su Twitter dai Måneskin non appena vinto il Festival di Sanremo:

«Dedichiamo questa vittoria a quel prof che ci diceva sempre di stare zitti e buoni.»

Ancora una volta la dedica è ad un insegnante, ma la direzione è contraria a quella di Camus: al posto della dolcezza c’è il sarcasmo, al posto della memoria la rivalsa, al posto del modello inclusivo di scuola c’è quello esclusivo. Insomma, due interpretazioni diametralmente opposte, che in qualche modo chiudono un corto circuito tra una scuola “buona” (in cui si ascolta e si permette all’alunno di esprimersi) e una scuola “cattiva” (in cui vigono dispotismo e mortificazione).

Dallo stesso palco già Daniele Silvestri e Rancore l’avevano denunciato nel 2019: «Ho sedici anni ma è già da più di dieci che vivo in un carcere […] costretto a rimanere seduto per ore, immobile e muto per ore». Ancora l’invito ad un silenzio di cui non si capisce il senso: «questa prigione corregge e prepara una vita che non esiste più da almeno vent'anni!».

Ecco il punto: a cosa ci prepara la fatica che viviamo tra i banchi di classe? Tutto quel bagaglio di silenzio, di noia, di delusione… serve davvero a qualcosa? Quando ascolto ragazzi che fanno sport mi raccontano di vessazioni incredibili dal loro allenatore, ma in loro c’è una speranza che li motiva, di eccellere in una specialità. Non è diverso per chi apprende uno strumento musicale o un mestiere: per esprimere il talento serve lavoro e disciplina.

Dopo tutto, lo dicono anche i Måneskin nel loro brano: «Scusami, ma ci credo tanto che posso fare questo salto e anche se la strada è in salita per questo ora mi sto allenando»; aggiungono «io ho scritto pagine e pagine, ho visto sale poi lacrime […] ma se trovi il senso del tempo risalirai dal tuo oblio». Dov’è la differenza tra questo dolore e quello di stare “zitti e buoni” ad un banco di scuola? È la percezione del senso di una fatica che li possa far volare. I ragazzi spesso si sentono soli in questo: «con ali di cera alla schiena ricercherò quell'altezza», spetta a noi adulti aiutarli a costruirsi delle ali che non si sciolgano al sole, invece a volte ci limitiamo a dirgli come volare, senza neanche sforzarci di guardare il cielo.

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