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sabato 5 novembre 2016

Siamo nel millenoveciento


Questa storia non è mia. Non dico che mai lo sarà, o che non lo possa essere stata. Di certo adesso non lo è, ma vale la pena che ve la racconti perché contiene il senso dell'essere insegnante. È una storia antica, che comincia nel Millequattrocento, quasi Millecinque… epoca in cui un piccolo villaggio della Toscana si vide piombare due buffi personaggi, un maestro e un bidello, convinti di provenire dal “Millenoveciento”. La vicenda è quella del film “Non ci resta che piangere” e serve a raccontare la nostra storia.

I due personaggi (un guizzante Troisi accompagnato da un eclettico Benigni, ancora in possesso della sua patente di guida) sono due lavoratori della scuola, sbalzati chissà come in un paesino medievale, Frìttole, senza sapere perché ma soprattutto senza sapere come uscirne. L'idea geniale per cercare di tornare a casa arriva dal bidello Troisi, che suggerisce al maestro Benigni di cominciare a pensare di essere nel XX secolo, ignorare quello che sta succedendo ed ingannare così l'entità dispettosa («'o Tiemp', Dio, chell' che r'è!») che li ha lanciati nel passato. Convinciamoci: siamo nel “millenoveciento”.

Ci spostiamo nel XXI secolo, dove una sorta di gigantesca Frìttole, che se non fosse vicino alla grande città sarebbe città essa stessa, vive un presente frenetico, denso di vicende di periferia e di lavoro, di scarsità di tempo e sensibilità, di sfiducia verso il prossimo e ancor di più verso le istituzioni. In questo turbinio c'è la scuola, fatta di bidelli Troisi e di maestri Benigni, ma anche di tanti paesani immersi nelle proprie vicende, abitanti di un personalissimo medioevo fatto di individualismo e arroganza.

Un giorno a scuola arriva L., ragazzino insofferente, agitato, nervoso, arrabbiato con la vita e con la famiglia, da cui probabilmente non si sente accolto e capito. Insomma, un ribollire di rabbia e paura, di aggressività e sofferenza, come ce ne sono tanti in ogni scuola. Come a volte capita, non gode del diritto di essere accompagnato dall'insegnante di sostegno, che lo guidi ad accettare la scuola, e tutto è affidato al lavoro dei suoi insegnanti curricolari, che magari sono tanto bravi nella propria disciplina ma, chiusi nel proprio medioevo, non è detto che sappiano relazionarsi con uno studente così particolare. (Il lettore attento si renderà conto che ogni studente in realtà è particolare a modo suo, quindi un insegnante che non sappia relazionarsi con loro in realtà non si sa relazionare con nessun altro! La scuola è fatta anche di questo.)

Fortunatamente, fra i suoi insegnanti ce n'è uno che non si perde d'animo, che comincia a cercare un'interazione con L., anche se all'inizio era solo impedire che fuggisse da scuola. La quotidianità della scuola inizia in maniera imprevedibile, faticosa, sempre in allerta per qualcosa di pericoloso che potrebbe succedere. Insomma, una forza dispettosa aveva tramutato un tranquillo presente in un folle “Millequattrocento, quasi Millecinque” da cui appariva impossibile uscire. Come si scappa da questo ingestibile medioevo? Come si può comunicare con un ragazzo che parla un'altra lingua, che ad ogni parola lega un ricordo intimo e doloroso, che improvvisamente si può adombrare chiudendosi nel suo mutismo?

Un giorno il piccolo esplode in un raptus di aggressività, e l'insegnante è costretto a contenerlo fisicamente e inchiodarlo a terra. Parlare con la madre non aiuta, perché se L. è nel medioevo, lei è su un altro pianeta.
Il lunedì successivo l'insegnante si alza, e prima di andare a scuola si ripete come Troisi: «Basta, sono nel 1900, non più nel medioevo», e va a scuola convinto di costruire una normalità. Posiziona il banco di L. fuori dall'aula per non indisporlo, fa l'appello e inaspettatamente il ragazzo risponde a voce bene alta. Il dialogo è aperto, che sia tornato davvero nel 1900? Ma ancora qualcosa non va, quando gli esercizi diventano difficili un interruttore si spegne e L. si chiude nel suo mutismo per tutta la giornata. L'indomani l'insegnante torna con esercizi diversificati, qualche gioco, attività e si ripete: «SIAMO nel 1900!», ma il lavoro dura poco più di mezz'ora, poi di nuovo ostruzionismo. Dalla finestra, gli occhi vigili ed affettuosi di una zia del ragazzino osservano speranzosi la scena.
L'insegnante non si arrende, lo deve alla sua professionalità, alla zia piantata là fuori e soprattutto a L., che ormai ha capito che il suo insegnante è disposto a lavorare non solo con la testa, ma anche con il cuore e se necessario con le mani pur di farlo uscire dal suo doloroso medioevo. Dopo giorni di lavoro, finalmente trova l'attività giusta: il tangram, una sorta di puzzle geometrico, molto utile per sviluppare l'area logico-matematica e il ragazzo ci si butta con anima e corpo, con tutti i suoi compagni.
È fatta, mi scrive: «Adesso anche L. è nel 1900 con noi :)».

Il racconto termina qui, ma la storia è solo al principio: adesso il canale è aperto e L. è forse pronto ad impegnarsi a scuola e a relazionarsi con gli altri, seppure coi suoi linguaggi e i suoi tempi. I suoi compagni avranno una persona nuova con cui crescere insieme, e gli insegnanti adesso potranno cominciare a lavorare finalmente con tutta la classe.
A questo serve la scuola, a liberarsi da un atteggiamento distruttivo, individualista ed autoreferenziale; insomma, ad uscire dal medioevo.

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