Le
storie delle donne che sono in carcere sono mille, almeno dieci
differenti per ogni detenuta! Sono storie di donne "innocenti",
incastrate da qualche uomo violento e tiranno, il cui nome tengono
tuttavia tatuato sul dorso di una mano, sulla spalla, sul braccio.
Donne che sperano quasi di restare in carcere, per non dover
rientrare a casa, contese tra il padre e il marito, ma che allo
stesso tempo vogliono disperatamente ritornare al caldo abbraccio del
loro uomo. Donne povere, cariche di una complessità disarmante.
Donne forti e fragili allo stesso tempo. La giornata di oggi la
dedico a loro.
Carcere
di Rebibbia: ore 9:00. Dietro al bancone del bar, la barista esegue
con rapidità e precisione tutte le ordinazioni che le vengono date.
Non avevo mai considerato quanta delicatezza potesse esserci nel fare
un caffè o una cioccolata calda. Distrattamente stavo per pagarle il
conto, ma il suo sguardo preoccupato mi distoglie da questa malsana
intenzione. Guarda la mia mano come se fosse infetta. Dimenticavo un
piccolo dettaglio: lei è detenuta, perciò non è autorizzata a
maneggiare neanche una moneta da un centesimo. Mai. Il bancone divide
due mondi, ma ancor di più la condizione civile separa le persone in
maniera drastica. Ancora per una decina d'anni questa donna educata e
gentile sarà costretta dietro quel bancone.
Un
piccolo rametto di mimosa è per te.
Carcere
di Rebibbia, ore 10:00. "Poi dicono che in carcere stanno
male... e noi invece?". Colgo al volo le confidenze di un'agente
di custodia. Non è semplice la vita in carcere, neanche per chi ci
lavora. Lentamente si perdono i lineamenti amichevoli dal volto e si
tramutano in un'espressione indifferente o in un sorriso beffardo.
Non sai di chi fidarti, devi stare attento a quello che dici, c'è
poco spazio per la tenerezza. Donne trasformate in grigi esecutori,
dalle parvenze mascoline, girano goffe nei corridoi. Alcune ci
provano a mostrare un poco di vanità sotto la divisa, ma altre
assumono lo stesso aspetto delle pareti ammuffite e dei corridoi
affumicati, dimentiche di essere donne, non tanto nell'aspetto,
quanto nei gesti e nei pensieri.
Un
piccolo rametto di mimosa è per te.
Carcere
di Rebibbia: ore 11:00. Il personaggio più esuberante e più
tenacemente femminile è U. Giovane madre di quattro figli, rimpiange
i momenti in cui andava alle giostre con loro. Soprattutto perché
sulle montagne russe si alternavano a fare un giro per uno! Quando
non canta a squarciagola in corridoio, ti affibbia improbabili
soprannomi e ci si ride insieme. Donna forte, che non vuole farsi
vedere carcerata dai figli. Che sia veramente disposta a stare due
anni senza vederli? Non oso immaginare la sua espressione il giorno
che dovesse mostrarsi loro "captiva", lei che è sempre
stata l'emblema della libertà. Cerco di imparare qualche parola
nella sua lingua, ma poi ridiamo sulla mia pronuncia e sul suo
italiano. Un giorno, pensierosa, mi racconta che è una giornataccia
e che è preoccupata perché dovrà scontare vent'anni a Rebibbia.
Parla con una faccia di pietra, lasciandomi una sensazione di
impotenza totale. La sensazione che si prova quando un altro essere
umano ti racconta una sofferenza così grande è indicibile, non si
può che ascoltare in silenzio. Dopo un breve attimo senza parlare
scoppia in una risata beffarda: "era uno scherzo!".
Le
ho portato il testo di una canzone che parla della sua gente. Letto
il titolo ha capito e mi ha restituito un sorriso sdentato pieno
d'entusiasmo.
Un
piccolo rametto di mimosa è per te.
Carcere
di Rebibbia, ore 13:00. L viene improvvisamente chiamata da un
citofono sguaiato che urla il suo cognome con voce gracchiante. È
giorno di colloquio e finalmente suo fratello è venuta a trovarla
dopo varie settimane. Lei ha circa cinquant'anni, espressione sempre
malinconica; una vita dura alle spalle, fatta di povertà e di
violenza (altrimenti non sarebbe lì). Quando ci siamo conosciuti mi
ha detto che non bisogna giudicare le persone, perché nella vita non
si sa mai ed è una lezione che mi porto dentro. Quando il citofono
la chiama le si illumina il viso e corre verso il fondo del
corridoio. Sparisce dietro una porta che si apre magicamente,
azionata da una mano lontana e sconosciuta. Riappare dopo poco in
lacrime: il fratello è stato mandato via d'urgenza a spostare la
macchina, che aveva parcheggiata davanti ad un cancello.
L'espressione di chi si sente abbandonata e dimenticata in un posto
squallido è triste e dura da consolare. Le frasi sconnesse sono
forti e parlano di dolore e di morte. Faticosamente si riesce ad
asciugarle le lacrime, ma siamo certi che basterà allontanarci -noi
liberi- perché scendano di nuovo copiose. Andiamo via con una
sensazione di angoscia e di grande impotenza. Il giorno dopo la
rincontriamo nei corridoi con una luce nuova sul volto. Al fratello
era stato permesso in via eccezionale di rientrare subito dopo aver
spostato la macchina. "Sciocca!", le dice bonariamente,
"Non ti ho abbandonata, non ti abbiamo dimenticata, ti vogliamo
bene!". Un sollievo di lacrime ad invadere gli occhi.
Un
piccolo rametto di mimosa è per te.
Ogni
donna in carcere mostra un volto diverso dal proprio volto più vero.
Un volto scavato da sofferenze e dalla condivisione forzata della
propria solitudine con persone sconosciute. Un volto che, nella
prigionia, nasconde il proprio stato di donna libera. Forse un
piccolo gesto di gentilezza può aiutarle a ritrovarlo e a ricordarsi
come è fatto e come è bello.
Auguri
a tutte le donne.
dopo aver letto queste storie non rimane molto da dire... se non che mi sono commossa, grazie.
RispondiEliminaSte
Bello lo sguardo di un uomo che osserva le donne con affetto e con rispetto, anche quelle "difficili", e sa porgere loro un gesto di gentilezza che riporta pace nel mondo di ciascuna!
RispondiEliminamonna lisa