Margherita
è una mia ex alunna, una delle più brave della sua classe. Conservo un bel
ricordo di lei: dei suoi occhi chiari e brillanti, che esprimono uno sguardo
profondo e triste, del suo sorriso a metà, della sua dedizione per il lavoro e
per lo studio. L’ho rincontrata di recente, mentre facevo la spesa, e ci siamo
salutati con affetto. Ha avuto una vita difficile, Margherita, e solo da adulta
ha potuto prendere la licenza di Scuola Secondaria di Primo Grado. Ero suo
professore allora, ricordo la sua emozione e la gran quantità di lavoro che le
ha permesso di prendere il voto più alto. Racconto spesso la sua storia. C’è da
dire che Margherita non si chiama veramente così, ma il suo nome non posso dirlo,
perché Margherita è detenuta e la attendono ancora molti anni da scontare.
Alcuni
anni fa (vedi qui e qui) ho avuto il privilegio di insegnare alcuni mesi presso un
carcere femminile: è stata un’esperienza che ha profondamente mutato il mio
modo di lavorare ed il mio approccio alla scuola. Il quartiere dove sono nato e
cresciuto si sviluppa intorno a quel carcere, perciò buona parte delle persone
della zona hanno avuto modo di mettere piede lì dentro: che sia per lavoro, per
volontariato o per scontare una pena, il carcere è inserito profondamente nel nostro
tessuto sociale. Anch’io da ragazzo guardavo con curiosità e timore a quel lunghissimo
muro grigio.
Se
dovessi adesso descrivere con una sola parola quello che ho trovato lì dentro, userei
“malizia”. Molti dei gesti che facevo o vedevo fare sembravano forzati, viziati
da un pensiero o uno sguardo opportunista, che si attaccava persino alle
intenzioni. Mi è capitato di dire parole gentili, parole ironiche, parole
confidenti… alcune di esse mi si sono ritorte contro, altre hanno rischiato di
ritorcersi contro le mie alunne. Tuttavia, a dispetto dell’etimologia che lega il
termine “cattivi” ai prigionieri, la maggiore malizia l’ho incontrata negli
altri lavoratori come me, talvolta invidiosi, talvolta interessati a qualche
doppio fine. Da parte delle alunne ho ricevuto invece lo stesso rispetto che io
davo a loro.
Uno dei
ricordi più belli è il percorso scolastico di Margherita, che preparò per l’esame
una tesina sui fiori, scritta a mano, con immagini fotocopiate ed incollate, i
titoli scritti in penna rossa e i disegni eseguiti con pastelli colorati. Se
penso a quanto sia difficile in carcere ottenere anche solo una penna nera, non
riesco ad immaginare con quali difficoltà sia riuscita a procurarsi tutto l’occorrente!
La
scuola per gli adulti solitamente è diversa rispetto a quella per i ragazzi:
deve tenere conto della minore elasticità mentale, degli impegni di lavoro e di
tanti altri fattori che rendono necessario valorizzare più l’impegno che i
risultati. Lo stesso vale per gli adulti detenuti, che nella loro giornata
oltre a studiare lavorano e devono rispettare numerosi obblighi con orari molto
precisi. Eppure con quella piccola classe di donne siamo riusciti a costruire
una normalità scolastica in un contesto assolutamente anormale; e Margherita è
riuscita ad affrontare la scuola con tale dedizione da rendere i suoi risultati
all’altezza del suo impegno.
Tutto normale,
dunque? No, perché dopo l’esame salutai quella classe e per l’unica volta nella
mia carriera fui io ad andarmene, lasciando lì le mie alunne; il contrario di
quello che avviene normalmente ad un insegnante. Questo mi ha reso più di ogni
altra cosa il polso della loro detenzione ed una certa malinconia mi accompagna
ogni volta che ci ripenso.
Margherita si è sempre data da fare: prima nella lavanderia del carcere, poi nel bar, infine fuori, con una cooperativa sociale che si occupa del reinserimento di persone fragili nel mondo del lavoro. Ecco dunque come l’ho incontrata: ad un banco del mercato dove vende alimenti biologici prodotti nelle carceri. Sta bene e svolge il suo compito con il solito impegno. Quando le ho ricordato il suo esame mi ha sorriso a metà, commentando: «Una vita fa!». A noi prof fa sempre piacere rincontrare i vecchi alunni, ci domandiamo come siano diventati, come si siano trasformati e cosa è cambiato nelle loro vite. Rincontrare Margherita in quel contesto ha significato invece tutto l’opposto, ossia che il suo presente è lo stesso di tanti anni fa, quando la salutai dopo il suo esame brillante, lasciandola lì a scontare la sua pena.
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