Tra il
serio e il faceto lo dico sempre ai miei studenti: quando vincerete il Nobel (o
la medaglia Fields o qualche altro prestigioso riconoscimento) ricordatevi di mandarmi
i saluti! Non lo dico tanto per dire, ci credo davvero: vedo tra le mie alunne
e i miei alunni troppe intelligenze brillanti per non pensare che tra di loro
si nascondano scienziati, scrittori, artisti, politici, imprenditori… persone
che faranno delle proprie capacità espressive, logiche, analitiche o sintetiche
qualcosa di grande. È qualcosa di più di una speranza, è un investimento di cui
attendo con ansia i frutti. Del resto, se fai con passione il mio mestiere, vivi
questa attesa come grande motivazione, perché sai che in qualche modo nel
successo futuro di un alunno c’è annidato il tuo lavoro nel presente.
È con
questo spirito che Albert Camus, poco dopo aver vinto il premio Nobel per la
letteratura nel 1957, ringrazia il suo maestro elementare:
«Caro
signor Germain, […] quando mi è giunta la notizia [di aver vinto il premio], il
mio primo pensiero, dopo che per mia madre, è stato per lei. Senza di lei,
senza quella mano affettuosa che lei tese a quel bambino povero che io ero,
senza il suo insegnamento e il suo esempio, non ci sarebbe stato nulla di tutto
questo.»
È un po’
il sogno di tutti noi insegnanti, un ex alunno che al culmine del suo successo
si ricorda di noi e del nostro lavoro. La vera sfida è che il nostro ricordo sia
sprone, innesco per un percorso di vita in cui ciascuno possa esprimere al
meglio le proprie capacità.
Ma la
scuola non è solo entusiasmi, lo sappiamo bene, è anche fatica e frustrazione,
che se non sono ben dosate diventano mortificazione del talento. Questo ci
dice, ad esempio, il commento pubblicato su Twitter dai Måneskin
non appena vinto il Festival di Sanremo:
«Dedichiamo
questa vittoria a quel prof che ci diceva sempre di stare zitti e buoni.»
Ancora
una volta la dedica è ad un insegnante, ma la direzione è contraria a quella di
Camus: al posto della dolcezza c’è il sarcasmo, al posto della memoria la rivalsa,
al posto del modello inclusivo di scuola c’è quello esclusivo. Insomma, due interpretazioni
diametralmente opposte, che in qualche modo chiudono un corto circuito tra una
scuola “buona” (in cui si ascolta e si permette all’alunno di esprimersi) e una
scuola “cattiva” (in cui vigono dispotismo e mortificazione).
Dallo
stesso palco già Daniele Silvestri e Rancore l’avevano denunciato nel 2019: «Ho
sedici anni ma è già da più di dieci che vivo in un carcere […] costretto a
rimanere seduto per ore, immobile e muto per ore». Ancora l’invito ad un silenzio
di cui non si capisce il senso: «questa prigione corregge e prepara una vita che
non esiste più da almeno vent'anni!».
Ecco il
punto: a cosa ci prepara la fatica che viviamo tra i banchi di classe? Tutto
quel bagaglio di silenzio, di noia, di delusione… serve davvero a qualcosa?
Quando ascolto ragazzi che fanno sport mi raccontano di vessazioni incredibili dal
loro allenatore, ma in loro c’è una speranza che li motiva, di eccellere in una
specialità. Non è diverso per chi apprende uno strumento musicale o un mestiere:
per esprimere il talento serve lavoro e disciplina.
Dopo tutto, lo
dicono anche i Måneskin nel loro brano: «Scusami,
ma ci credo tanto che posso fare questo salto e anche se la strada è in salita
per questo ora mi sto allenando»; aggiungono «io ho scritto pagine e pagine, ho
visto sale poi lacrime […] ma se trovi il senso del tempo risalirai dal tuo
oblio». Dov’è la differenza tra questo dolore e quello di stare “zitti e buoni”
ad un banco di scuola? È la percezione del senso di una fatica che li possa far
volare. I ragazzi spesso si sentono soli in questo: «con ali di cera alla
schiena ricercherò quell'altezza», spetta a noi adulti aiutarli a costruirsi delle
ali che non si sciolgano al sole, invece a volte ci limitiamo a dirgli come
volare, senza neanche sforzarci di guardare il cielo.
Perfetto nelle tue considerazioni
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