Sono un insegnante, con tutto ciò che ne comporta, aspetti
positivi e negativi. Anche con qualche attesa, a dire il vero, perché
l'insegnamento è un lavoro qualificato; intendo dire che per svolgerlo è
necessaria la laurea. Non sono in molti a possedere questo requisito nel nostro
paese: le ultime rilevazioni Eurostat indicano che solo il 13,7% degli adulti in età lavorativa (15-64 anni) possiede una laurea. Escludendo che possano
essere già laureati i giovani fra i 15 e i 22 anni, la percentuale ci posiziona
comunque molto in basso rispetto agli altri paesi europei. Intendiamoci, essere
laureati non è sufficiente a renderci buoni lavoratori, ma le energie che
abbiamo profuso per aumentare la nostra cultura, ampliare il nostro punto di
vista, elaborare la nostra capacità di linguaggio sono superiori a quelle di
coloro che non hanno avuto la possibilità o la voglia di conseguire un titolo
universitario.
Tra i tanti insegnanti, poi, ce ne sono diversi che sono superqualificati,
ovverosia che possiedono titoli in più rispetto a quelli richiesti: dottorati,
master, specializzazioni. Niente di tutto ciò è strettamente necessario, ma
amplia la nostra prospettiva a vantaggio degli studenti che abbiamo davanti.
Ancora non basta: per fare l'insegnante, tutti ce ne rendiamo conto, occorrono
spiccate competenze relazionali, ed è qui che casca l'asino!
Nonostante esistano corsi di stampo psicologico o pedagogico
che possiamo seguire per aggiornarci in tal senso, nessuna (o pochissima)
selezione viene effettuata per valutare questi aspetti. Il motivo è molto
semplice: valutare le competenze relazionali è difficile, dispendioso ed ha
ampi margini di soggettività. Mentre per un ispettore del Ministero è
relativamente semplice valutare aspetti tecnici (documentazione in ordine,
appalti affidati in maniera regolare, bilancio curato, ecc.), sarebbe
infinitamente più complesso capire se un insegnante "sa stare" con
gli alunni in maniera costruttiva per il loro benessere futuro. È un lavoro che
richiede il confronto tra tutti i soggetti in gioco: colleghi, alunni,
famiglie, dirigenza. Inoltre, bisogna tener presente la prospettiva con cui si
svolge questo lavoro. L'insegnante è un artigiano della società del futuro e,
poiché lavora nel presente, ha bisogno di avere chiare già da oggi quelle che
potrebbero essere le priorità di domani. In questo processo, non può essere un
passivo esecutore di decisioni prese da altri, ma un soggetto attivo, che ha
bisogno di essere coinvolto anche nella fase progettuale. Altrimenti lavorerà
controvoglia o portando avanti cose che non capisce o che semplicemente non gli
appartengono.
Una scuola che funziona è quella dove tutto il corpo
docente, guidato dal dirigente, si mette al lavoro per costruire un ambiente
educativo in grado di sostenere e far crescere gli alunni, in stretta
cooperazione con le famiglie, che sono la cellula educativa fondamentale della
società. Così come in una famiglia, i genitori affrontano meglio le fatiche
dell'allevare i figli se si sostengono a vicenda, in una scuola il benessere
degli studenti è vincolato all'entusiasmo degli insegnanti. Tanto per fare un
esempio, i lunghi periodi di distacco dalla didattica (non parlo di ferie, ma
di tempo dedicato a fare altro che non sia stare con gli alunni), ci permettono
di essere più lucidi e concentrati nei confronti dei ragazzi, che è la parte
più importante del nostro lavoro.
La scuola è però un'istituzione pubblica e in quanto tale
risente delle stesse difficoltà di tutti gli uffici pubblici, con l'aggiunta di
elevate aspettative da parte della società. La scarsa motivazione è il problema
più grande, dato che c'è un'ampia svalutazione della professione: dopotutto,
avere un orario apparentemente ridotto ci mette in scacco di fronte ad altre
richieste (dai salari più alti a una considerazione sociale maggiore). Le
scuole private non se la cavano tanto meglio, poiché spesso l'unica misura per
il trattamento di un lavoratore è il risparmio.
Allora che si fa? Si può dare un argine alle grandi
difficoltà che affliggono la scuola italiana? Come si fa a trasformare le
difficoltà in sfide, in modo da passare dalla rassegnazione all'entusiasmo?
Non esistono risposte semplici a problemi complessi, per cui
togliamoci dalla testa che rendere semplicemente più appetibile una scuola sia
la panacea di tutti i mali. Esistono sperimentazioni dal nome altisonante
(magari inglese), che tuttavia senza il personale qualificato e formato sono
come macchine potenti nelle mani di chi non sa guidare. Soprattutto, è
necessario chiedersi a chi servono: agli alunni per crescere in maniera più
consapevole o alla scuola per acchiappare iscritti? Non credo sia deprecabile
perseguire il secondo obiettivo, ma solo quando viene posposto al primo. Se non
si discutono insieme le finalità educative di un progetto, non è pensabile che
esso dia risultati. Un insegnante può avere un grande potere nei confronti dei
propri alunni, spetta ai dirigenti scegliere se orientare tale potere a
vantaggio della scuola, magari rinforzandolo con la formazione, o fare di tutto
per soffocarlo.
Artigiani di futuro, una bellissima definizione! Rimanda ad un lavoro paziente e non in serie, inserito in un progetto che guarda lontano... una rarità al giorno d’oggi, in cui e’ tutto standardizzato e imprigionato nel presente. Ma c’E’ poco da fare: l’insegnamento o e’ cosi’ o non ha ragione di esistere
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