Quest'anno ho svolto una supplenza nel carcere di Rebibbia, con la scuola media per adulti. Era inverno, quando entrai per la prima volta. Ricordo ancora quel primo giorno...
La
nebbia mattutina mi avvolge tutto intorno. Dal grigio uniforme del
sottofondo lentamente si delinea un lungo muro rettilineo di un
grigio diverso, triste e sbiadito di cemento vecchio. È
interminabile e ogni tanto è interrotto da un cancello, che segna
l'ingresso dei penitenziari.
L'aria
sgocciola di umido e il mio passo si fa pesante; la mia mente cerca
di non pensare, di non farsi aspettative. Cerca di dimenticare (o ha
già dimenticato e cerca di ricordarle?) le premurose indicazioni che
la coordinatrice scolastica mi ha elencato ieri, con puntiglio
meticoloso.
Arrivo
sentendo solo il rumore dei miei passi, che stridono delicatamente
sull'asfalto consunto. Fermo davanti all'ingresso cerco qualcosa su
cui concentrare le mie azioni ed i miei pensieri, durante l'attesa.
Passeggio un po', poi tiro fuori un libro e inizio a leggere
Pasolini, appoggiato ad un paletto arrugginito.
Ah,
il vecchio autobus delle sette, fermo
al
capolinea di Rebibbia, tra due
baracche,
un piccolo grattacielo, solo
nel
sapore del gelo o dell'afa...
È
il Pasolini insegnante, che scrive del suo soggiorno nel quartiere di
Rebibbia, pensando ai ragazzi di borgata che giocavano nei prati.
Era
loro la mattina che bruciava,
sul
verde dei campi dei legumi intorno
all'Aniene,
l'oro del giorno,
risvegliando
l'odore dei rifiuti,
scorgendo
una luce pura come uno sguardo
divino,
sulle file delle mozze casette,
assopite
insieme nel cielo già caldo...
Arrivano
i colleghi: dopo poche presentazioni molto cordiali, citofoniamo e la
porta si apre. «In carcere», diceva ieri la docente referente, «la
virtù più importante è la pazienza: tu suoni e aspetti che
qualcuno che non vedi ti apra». Così entriamo, lentamente,
superando una porta dopo l'altra. L'ambiente non somiglia affatto
alla mia idea di carcere: piuttosto si tratta di un insieme di uffici
pubblici, situati in diverse palazzine, basse e circondate dal verde.
Se uno non lo sa non si accorge di essere rinchiuso. Quello che fa la
differenza sono da un lato le porte, blindate e pesanti, lente ad
aprirsi e inesorabili a richiudersi, dall'altro i volti duri, che
mostrano di sapere molto più di quello che non dicono.
Le
guardie sono cordiali e si rivolgono con rispetto a noi insegnanti.
L'ultima porta è la più pesante, opprimente; divide gli uffici
dalla zona reclusione. I corridoi all'interno sono bianchi e
luminosi, con un odore dolciastro di detersivo. Guardo il corridoio e
gli spazi esterni, pensando alle lezioni che potrei svolgervi. Non ho
ancora chiaro che cosa mi sarà permesso fare.
Nessun commento:
Posta un commento